giovedì 11 marzo 2010

C'era una volta Ottavia


Ottavia è la nonna che non ho mai conosciuto. E’ morta per una brutta polmonite alcuni anni prima che io nascessi . Tutto quello che so di lei me lo hanno raccontato mio nonno e mio padre.
Ottavia era una donna piccola e bruna con i capelli raccolti in una cipolla alla base del capo. Il viso rotondo e gli occhi scuri e buoni. Donna instancabile, madre amorevole e cuoca superba.
Questo è quello che dice ancora oggi mio padre e quando parla di lei i suoi occhi chiari si velano di lacrime e tristezza.
Aveva sposato mio nonno Natale quando non era più tanto giovane. Lui se ne era andato dopo la Grande Guerra in America a cercare fortuna. La fortuna non la trovò mai. Trovò invece un lavoro duro e faticoso in Pensylvania. D’inverno faceva così freddo che i pensieri si gelavano in testa e il respiro sui baffi.
Quando ritornò la prima cosa che fece fu quella di andare a chiederla in sposa. Lei che lo aveva sempre amato e aspettato, in quel momento, vide coronato il suo sogno di donna.
I miei nonni erano cugini di primo grado e questa infelice combinazione genetica dava origine a bambini che non vedevano la luce. Solo uno, mio padre, ce l’ha fatta.
La loro famiglia, anche se con un solo figlio, era composta da 12 persone. Vivevano infatti in una grande casa insieme ad un fratello del nonno, alla moglie ed ai loro 7 figli.
Ed era lei che per sorte e per indole doveva prendersi cura della casa e della famiglia. Era lei che lavava i panni al fosso. Era lei che curava l’orto, faceva il pane e preparava da mangiare per tutti. E la sera dopo aver rigovernato e sistemato la grande cucina si sedeva accanto al fuoco e ricamava pizzi e merletti che ancora oggi mi incantano per la loro bellezza e perfezione.
Toccava quindi a lei pensare ogni giorno a cosa preparare per il pranzo e per la cena. Quando arrivava la primavera c’era un piatto che lei amava fare. Una pietanza semplice ma molto gustosa che le consentiva di utilizzare il pane raffermo. Si infilava un paio di scarpe vecchie e andava nell’orto a raccogliere i gambi e le foglie del sedano e le cipolle nuove. Nella dispensa c’era sempre la passata di pomodoro fatta, l’anno prima, quando il sole scottava le gote. Le uova erano nel pollaio. Mancavano raramente.
E così con movimenti naturali, imparati da sua madre, incominciava a preparare l’acquacotta.
Prendeva la grande padella di ferro. Ogni volta che la usava la strofinava con la sabbia, la risciacquava con cura e la asciugava sul fuoco per evitare che facesse la ruggine.
Ricopriva il fondo con l’olio d’oliva e poi aggiungeva la cipolla tagliata sottile e il sedano, sia la costa che la foglia. Il tutto andava soffritto lentamente finché la cipolla non diventava trasparente. A quel punto ci aggiungeva il pomodoro, il sale, qualche peperoncino e la lasciava ancora insaporire lentamente. Quando il fuoco e la cottura avevano fatto evaporare tutta l’acqua delle verdure e del pomodoro aggiungeva tanta acqua quanta l’esperienza le aveva insegnato ce ne volesse per inzuppare il pane necessario per dar da mangiare a tutta la sua famiglia. E lasciava cuocere ancora fino a quando sulla superficie non galleggiava l’olio. A quel punto il profumo aveva inondato la casa e i bambini incominciavano a girarle intorno impazienti.
Recuperava nella grande madia larghi vassoi, ci distribuiva sottili fette di pane raffermo, una spolverata di pecorino e poi ci versava quel brodo vegetale profumato di sedano e cipolla.
Ne lasciava nella grande padella quel tanto che bastava per rompervi e cuocervi un uovo per ogni commensale. Poi copriva la padella con un coperchio e lasciava sobbollire dolcemente le uova.
Passato qualche minuto, servendosi di un mestolo, adagiava le uova sul pane ormai inzuppato e faceva ancora riposare e insaporire il tutto fino al momento di andare a tavola.
Questo piatto veniva preparato spesso perché è molto gustoso, molto semplice e soprattutto poco costoso. Se ne faceva in grande quantità perché anche, se per caso fosse avanzato, al mattino successivo per la colazione c’era sicuramente qualcuno che lo avrebbe mangiato volentieri.
L’acquacotta ha cresciuto generazioni di persone. Forse non era così amata come lo è oggi in quanto si mangiava troppo spesso. Sicuramente ha consentito, a donne come la mia nonna, di sfamare i figli o perlomeno di fargli credere di essersi sfamati.
Quando preparo l’acquacotta non posso fare a meno di fantasticare. E mi domando se la mia nonna abbia mai pensato che la sua unica nipote avrebbe cucinato questo piatto immaginandola nella sua grande cucina. I muri alti, ingialliti dal fumo e dal tempo, le travi scure, l’acquaio di travertino, i secchi per terra, le strisce di carta moschicida che pendevano dal soffitto. E lei con quei lunghi vestiti neri con piccoli fiori, unico vezzo di una donna non più giovane, il fazzoletto annodato dietro al capo e quegli immacolati grembiuli bianchi che solo le donne di un tempo sapevano indossare come abiti da sera. Forse no, anzi sicuramente non se lo immaginava. Comunque sia dedico a lei questa mia passione per la cucina che credo essere, in qualche modo, frutto e regalo della sua eredità genetica.

Nessun commento:

Posta un commento