mercoledì 27 gennaio 2010

Le donne della mia vita



Le donne della mia vita.

Mia madre aveva due sorelle. Lei era la più piccola. Erano tre perché c’era la voglia di un figlio maschio. Quando nacque mia madre, mio nonno decise che tre figlie femmine erano sufficienti e che era meglio non rischiare più. Virma, Elia e Ilva. Questi erano i loro nomi. Una diversa dall’altra. Tutte e tre molto belle.
Virma, la più grande è sempre stata un po’ gracile. Sempre con qualche problema di salute. Ricordo che quando andavamo a trovarla spesso era a letto con una benda sugli occhi, la tapparella abbassata, la finestra e la porta chiuse. Luce e rumori, in quei momenti, erano i suoi peggiori nemici. Aveva una dote unica. La fantasia. Quando era bambina giurava e spergiurava di parlare con le fate. Si rannicchiava contro un angolo della stanza e incominciava a parlottare sommessamente. E continuava a bisbigliare finché le due sorelle non la tiravano per la gonna, incuriosite, perché anche loro volevano sapere che cosa le dicevano le fate. Lei raccontava storie fantastiche di castelli, draghi e principi e per dare forza ai suoi racconti mostrava i pizzi che le fate le regalavano. Passava parte delle sue notti a lavorare all’uncinetto al lume della luna. E’ morta un paio di anni fa, dopo alcuni anni di assoluto silenzio. Non parlava e non vedeva più. Mi piace pensare che la sua mente e i suoi occhi siano stati rapiti dalle fate dei suoi giorni giovani.

Elia aveva una bellezza ribelle. Occhi azzurri e lineamenti lievi. Amava ballare. Ballava sempre. Quando apparecchiava e quando faceva i lavori di casa. Era allegra, rumorosa e molto testarda. Il suo primo grande amore partì per la guerra e non tornò mai più.
Era una cuoca stupenda sicuramente perché le piaceva cucinare e anche perché l’uomo che sposò amava la buona tavola. Passava ore ed ore in cucina, assaggiava, mescolava, aggiungeva e toglieva con la sicurezza di un alchimista e alla fine le sue pietanze oltre ai profumi e al gusto avevano dentro il suo cuore, il suo amore. Da quello che ricordo di allora e con la conoscenza di oggi posso dire che era davvero bravissima ma aveva sempre il timore di aver sbagliato qualcosa: troppo pepe? Troppo cotto? Poco sale? Non riesco a capire perché fosse sempre così titubante e insicura. Non ne aveva ragione ma, come tutti quelli un po’ speciali, lei non lo sapeva.
E’ stata l’unica a fare tre figli e sicuramente quella a cui la vita ha riservato più dolore e sofferenza. Perse il suo unico figlio maschio in un pomeriggio d’estate. Era luglio, faceva molto caldo. La notizia arrivò per telefono. Il suo urlo di dolore squarciò la noia di quel pomeriggio sospeso tra l’afa e l’ombra riportando tutti alla realtà. Una realtà fredda e terribile distesa sul tavolo dell’obitorio di Pietrasanta. La perdita di quell’unico figlio segnò profondamente il cuore e lo spirito di quella donna che incominciò un lento percorso verso il suo appuntamento con l’aldilà. Il suo carattere cambiò lentamente e gli occhi vivaci diventarono, ogni giorno, un po’ più spenti. Era come se tutto il resto degli accadimenti quotidiani della vita le scivolassero vicino ma mai attraverso il suo io. Una mattina d’inverno di alcuni anni dopo se ne andò, per sempre, anche suo marito, lo zio Bruno. Un uomo mite e laborioso che l’aveva sostenuta con amore e tenacia anche e soprattutto dopo la morte del loro figlio.
Lei ci ha lasciati prima che riuscissi a dimostrarle quanto ero diventata capace e quanto i suoi segreti e i suoi suggerimenti avessero migliorato la mia arte in cucina.

Ilva, mia madre, aveva una bellezza mediterranea. Forme morbide. Capelli ricci e neri. Occhi scuri e penetranti. Gli occhi di mia madre mi hanno parlato molto di più di quanto non lo abbia fatto lei.
Ricordo che da piccola soffrivo di gelosia. Quando la vedevo in atteggiamenti teneri con altri bambini mi assaliva una rabbia sorda che mi faceva mancare il fiato, mi dava le vertigini e mi feriva profondamente il cuore. Oggi se non sono gelosa è proprio grazie al fatto che quel sentimento mi faceva stare troppo male.
Lei era molto forte, molto rigorosa, molto concreta e molto pessimista. Aveva un grande cuore ed era incredibilmente generosa.
Ha forgiato la mia vita e il mio carattere ma non ha potuto nulla contro il mio ottimismo e la mia voglia di vivere. L’ho amata e odiata in egual misura e sono felice che la vita mi abbia dato un figlio maschio.
Quando penso a lei sento di non essere mai riuscita a parlarle serenamente, ad aprirle il mio cuore, a raggiungere quella confidenza complice che dovrebbe esserci tra madre e figlia. Era come se tra di noi ci fosse sempre un vento ghiaccio che raffreddava la capacità di parlare, di entrare in confidenza, di sentirsi intimamente liberi e sicuri di non essere giudicati. Verso di lei ho provato grandi rabbie e grande, grandissima tenerezza. La rabbia più sorda esplose un pomeriggio, in cucina, mentre insieme preparavamo la cena. Lei mi punzecchiava e mi sfidava per farmi capire che quel fidanzato che volevo sposare non era la persona giusta per me. Io la ascoltavo, rispondevo a monosillabi e cercavo di non sentire quelle parole che volevano scuotermi da quello stato di catalessi in cui vivevo. Capivo che quello che mi diceva era tutto corretto, tutto vero. Ma l’orgoglio, l’orgoglio non consentiva di accettarlo. Mi voltai e le diedi uno schiaffo. Lei si zittì sorpresa da tanta rabbia. Io, raggelata dalla mia reazione, fui incapace di piangere e di chiederle scusa. Ancora oggi faccio un sogno. Per difendermi devo schiaffeggiare qualcuno ma non ci riesco.
La tenerezza struggente e dolorosa, invece, l’ho provata soprattutto negli ultimi giorni della sua vita quando la fine, ormai vicina, le ha tolto anche la parola lasciandole solo la forza prepotente dello sguardo: due bellissimi occhi scuri e profondi.
C’è una vecchia foto che, quando mi capita tra le mani, la guardo e la riguardo e, a fatica, la ripongo. In quella foto ci siamo io e lei. E’una fotografia in bianco e nero. Siamo sulla soglia della casa di Semproniano. Il portone ci incornicia, all’interno tutto è nero. In quella foto non ha nemmeno trent’anni, sorride ed è bellissima. Anch’io sorrido. Indossa una bel vestito probabilmente blu. Ai piedi ha un paio di scarpe alte intrecciate. Io ho un vestitino chiaro ed un fiocco in testa. Ci teniamo per mano. Siamo felici tutte e due. La vita ci sorride. E’ così che mi piace ricordare mia madre, come in quella foto. Allegra, felice, giovane, solo mia, tutta mia, per sempre.