venerdì 7 maggio 2010

Auguri a tutte le mamme


Auguri di cuore alle mamme giovani e a quelle meno giovani. A quelle che che sono passate di grado diventando nonne e a quelle che pur non avendo mai avuto bambini lo sono comunque per vocazione o per dna.
Ho ricevuto una ricetta 'dolce' che dedico a tutte noi.
Buona festa con tanto tanto affetto.

Biancomangiare alla confettura di fragole e menta

Ingredienti e dosi per 4 persone:
Latte 400 ml
20 g di zucchero
Panna montata ml 150
Confettura di fragole g 150
½ stecca di vaniglia
4 g di gelatina
4 gocce di aceto balsamico tradizionale
Un cucchiaino di succo di limone
4 foglie di menta

Procedimento:
Ammollare la gelatina.
Mescolare la confettura e poco succo di limone.
Bollire il latte con mezza stecca di vaniglia e lo zucchero; filtrare e unire la gelatina strizzata. Raffreddare a 20 °C e unire le foglie di menta spezzettate finemente e la panna montata.
Versare in 4 coppe un cucchiaio di confettura e ricoprire con il composto ottenuto.
Versarvi sopra la confettura di fragole rimasta.
Porre in frigo per almeno 3 ore.
Condire con un goccio di aceto balsamico e servire.
Tempo di realizzazione: 25 minuti
Tempo di cottura: 5 minuti
Difficoltà: media

martedì 23 marzo 2010

Sono indignato



"Sono indignato per la pochezza di questo paese. Sono indignato perché dei cretini si danno dei cretini a vicenda e noi stiamo a guardarli. Sono indignato perché tutti insieme dovremmo confermare loro che sono dei cretini e invece........

Sono indignato perché questo paese non si indigna, soprattutto per questo sono indignato!

Carlo Angelo Tosi"

Questo è il messaggio di un amico che mi piace condividire con donne e uomini di buona volontà.

venerdì 19 marzo 2010

Oggi 19 marzo è la festa del Papà


Un augurio a tutti gli uomini che sono padri e nonni e anche a quelli che, se non sono diventati padri e nonni, amano i bambini perchè rappresentano il nostro lasciapassare per l'immortalità.
Un augurio particolare al mio 'babbo', che è anche nonno, a cui voglio un sacco di bene.

Romeo




Non si può proprio dire che la mia sia stata una vita facile. Sin da piccolo ho dovuto adattarmi a quello che la giornata mi offriva. Mia madre mi ha solo svezzato e poi, presa da una nuova avventura, mi ha completamente dimenticato. Ho dovuto imparare tutto a mie spese, sia le regole della sopravvivenza che del comportamento. Sono proprio un tipo forte e robusto per far fronte all'arroganza della vita, alle sue tristezze e ai suoi disagi. Ma nonostante tutto eccomi qua. Quando, raramente, mi capita di specchiarmi, mi rendo perfettamente conto che tutti i travagli che ho dovuto sopportare si leggono distintamente sul mio corpo, si intravedono nei miei occhi. Ma ad un più attento esame mi autoconvinco che ho superato tutto, sempre e piuttosto bene. Qualche cicatrice c'è, ma il mio corpo è ancora forte e agile. Ma è soprattutto la mente che è perfettamente lucida e sveglia. Non mi sfugge niente. Non dimentico niente. Se devo fare un bilancio sono proprio soddisfatto di me stesso. E non so quanti altri, come me, oggi potrebbero dire lo stesso.
In questi ultimi tempi mi è capitata proprio una cosa insolita. Direi spiacevole. Vagavo come al solito sui tetti, quando mi sono accorto che il mio sottotetto preferito non è più silenzioso e tranquillo come al solito. Ci sono persone che vanno e vengono, a volte fanno un sacco di rumore, portano via degli oggetti e ne fanno arrivare degli altri. Non si può proprio stare tranquilli. E pensare che su quel piccolo balconcino, anche se un po' dissestato ci passavo dei pomeriggi perfetti, sdraiato al sole a riscaldarmi e a riposarmi.
Il trambusto è continuato per giorni e giorni, poi improvvisamente tutto è stato di nuovo silenzio. Che meraviglia, ho pensato. Ora il mio balconcino è ancora più bello, sai che bei pisolini ci posso schiacciare. La sera ho preso l'abitudine di portarmi il cibo, quando lo trovo, fin quassù. Senza nessuno intorno, senza rumori e senza pericoli la mia cena, anche se non è un granché, diventa perfetta.
Ma le cose belle non durano mai abbastanza a lungo e così un bel giorno hanno incominciato a portare mobili, oggetti, suppellettili, libri. Un sacco di gente che va e che viene. Un gran baccano. Io me ne sto nascosto e acquattato per non farmi vedere. Ma la curiosità è più forte di me. In fondo questa è la mia casa e devo vedere chi me la sta usurpando.
Oggi dopo tanti appostamenti, facendomi coraggio, cercando però di non farmi vedere, sono finalmente riuscito a capire chi ci abita.
C'è un uomo non giovanissimo, c'è anche un ragazzo. Ogni tanto c'è anche una donna. Lui, l’uomo, ha un fare sereno, pacato. Quando vede qualche passerotto mette delle briciole sul davanzale della finestra della cucina. Il mio sesto senso di gatto mi dice che potremmo diventare amici.
Il ragazzo va e viene. Per l’esattezza è più il tempo che non c’è. Arriva per il fine settimana. Mi piace perché mangia dei panini così profumati che la mia fervida immaginazione mi dice che devono essere buonissimi. Cosa darei per un po’ di cibo così tutto per me.
Lei è sempre molto agitata. Lava, pulisce, riordina, rassetta, impartisce disposizioni. Lei non mi piace. Ha solo un pregio. Quando cucina si spande nell'aria un profumo così buono che mi avvolge, mi inebria e mi fa perdere l'equilibrio. E mi intenerisco anch'io che di tenero non ho proprio niente. Non ho dubbi, deve essere una strega.


Romeo è stato il primo gatto con il quale sono entrata in contatto. Non è stato sicuramente un amore a prima vista. Ci sopportavamo a malapena.
All’epoca pensavo che per fare amicizia con un animale bastasse dargli del cibo. Ho capito, in seguito, quanto delicato, complesso e sfaccettato è il percorso che conduce alla meta dell’amicizia e della sintonia.
Questo incontro è avvenuto a Milano, nella bellissima casa di Roberto in cima ai tetti .

sabato 13 marzo 2010

La mia migliore idea


Sei nato in una bella sera di novembre. E quella sera è nata l'idea del figlio che avevo sempre sognato. Quando sei uscito dal mio corpo, e ti ho visto bagnato e indifeso, ho capito che dovevo aspettare che passassero gli anni necessari per far diventare uomo il bimbo che dormiva sereno tra le mie braccia. Sai quell’idea ti vedeva grande, autosufficiente, importante ed invece eri li, piccolo, avvolto in una coperta colorata e bisognoso di tutte le cure e di tutte le attenzioni possibili. Solo il tempo avrebbe detto se il figlio immaginato era conforme alla realtà.
Ricordo con angoscia i tuoi primi mesi. Piangevi molto, qualcosa ti disturbava. Forse il latte, forse io che non capivo ancora il tuo linguaggio o forse il clima che già c’era nella nostra casa. Non c’è nessun medico, purtroppo, che prepara la madre a quel periodo, nessuno che spieghi come un bimbo così piccolo possa invadere la giornata togliendo spazio, fiato, forze, sonno lasciando solo spossatezza e insoddisfazione. E tutto questo, insieme alla stanchezza e all’inesperienza diventano ossessione, malattia.
Gli anni sono passati. Quando li vivevo mi sembravano lenti e lunghissimi e invece sono rotolati via, troppo in fretta. Ma oggi posso dire che l’idea corrisponde al sogno e non mi delude.
Benvenuto nella mia vita, Gabrio.
Tu non lo sai ma hai dato coraggio ai miei pensieri e corpo alle mie idee. Hai reso possibile scelte che diversamente sarebbero sembrate impossibili. Hai dato luce e forza alla mia vita.
L’esperienza che ho vissuto con te, standoti a fianco e cercando di insegnarti quello che mio padre e mio nonno avevano insegnato a me mi ha fatto capire quanto è bello ma anche difficile essere madre.
Mi hai fatto crescere, maturare, prendere coscienza di essere una persona con la testa e soprattutto con il cuore.
Spero che di me ti resti soprattutto il cuore.

giovedì 11 marzo 2010

Le streghe



Sono tornata a Milano la scorsa settimana. Milano, da quando l’ho lasciata ormai 15 anni fa, mi accoglie sempre con giornate miti e assolate. Il primo giorno mi ha addirittura regalato la vista delle Prealpi, che la incoronano, limpide e innevate. Ci ritorno perché è un piacere fare un tuffo nell’inciviltà: rumore, smog, caos e puzze dopo tanto silenzio, cieli puliti, quiete e aria profumata e per il piacere di incontrare le mie amiche. Le mie amiche. Che parola importante ma è proprio così.
Tra le mie amiche c’è un gruppetto di donne, 5 in totale me compresa, che si è ribattezzato ‘Le streghe’. Ci conosciamo e ci frequentiamo da quando avevamo 14 anni. Ci scriviamo, ci messaggiamo, ci sentiamo per telefono regolarmente e soprattutto cerchiamo di vederci almeno una volta all’anno. La fotografia conferma e sancisce il nostro incontro.
E’ una cosa che reputo bellissima. Viva noi streghe.

C'era una volta Ottavia


Ottavia è la nonna che non ho mai conosciuto. E’ morta per una brutta polmonite alcuni anni prima che io nascessi . Tutto quello che so di lei me lo hanno raccontato mio nonno e mio padre.
Ottavia era una donna piccola e bruna con i capelli raccolti in una cipolla alla base del capo. Il viso rotondo e gli occhi scuri e buoni. Donna instancabile, madre amorevole e cuoca superba.
Questo è quello che dice ancora oggi mio padre e quando parla di lei i suoi occhi chiari si velano di lacrime e tristezza.
Aveva sposato mio nonno Natale quando non era più tanto giovane. Lui se ne era andato dopo la Grande Guerra in America a cercare fortuna. La fortuna non la trovò mai. Trovò invece un lavoro duro e faticoso in Pensylvania. D’inverno faceva così freddo che i pensieri si gelavano in testa e il respiro sui baffi.
Quando ritornò la prima cosa che fece fu quella di andare a chiederla in sposa. Lei che lo aveva sempre amato e aspettato, in quel momento, vide coronato il suo sogno di donna.
I miei nonni erano cugini di primo grado e questa infelice combinazione genetica dava origine a bambini che non vedevano la luce. Solo uno, mio padre, ce l’ha fatta.
La loro famiglia, anche se con un solo figlio, era composta da 12 persone. Vivevano infatti in una grande casa insieme ad un fratello del nonno, alla moglie ed ai loro 7 figli.
Ed era lei che per sorte e per indole doveva prendersi cura della casa e della famiglia. Era lei che lavava i panni al fosso. Era lei che curava l’orto, faceva il pane e preparava da mangiare per tutti. E la sera dopo aver rigovernato e sistemato la grande cucina si sedeva accanto al fuoco e ricamava pizzi e merletti che ancora oggi mi incantano per la loro bellezza e perfezione.
Toccava quindi a lei pensare ogni giorno a cosa preparare per il pranzo e per la cena. Quando arrivava la primavera c’era un piatto che lei amava fare. Una pietanza semplice ma molto gustosa che le consentiva di utilizzare il pane raffermo. Si infilava un paio di scarpe vecchie e andava nell’orto a raccogliere i gambi e le foglie del sedano e le cipolle nuove. Nella dispensa c’era sempre la passata di pomodoro fatta, l’anno prima, quando il sole scottava le gote. Le uova erano nel pollaio. Mancavano raramente.
E così con movimenti naturali, imparati da sua madre, incominciava a preparare l’acquacotta.
Prendeva la grande padella di ferro. Ogni volta che la usava la strofinava con la sabbia, la risciacquava con cura e la asciugava sul fuoco per evitare che facesse la ruggine.
Ricopriva il fondo con l’olio d’oliva e poi aggiungeva la cipolla tagliata sottile e il sedano, sia la costa che la foglia. Il tutto andava soffritto lentamente finché la cipolla non diventava trasparente. A quel punto ci aggiungeva il pomodoro, il sale, qualche peperoncino e la lasciava ancora insaporire lentamente. Quando il fuoco e la cottura avevano fatto evaporare tutta l’acqua delle verdure e del pomodoro aggiungeva tanta acqua quanta l’esperienza le aveva insegnato ce ne volesse per inzuppare il pane necessario per dar da mangiare a tutta la sua famiglia. E lasciava cuocere ancora fino a quando sulla superficie non galleggiava l’olio. A quel punto il profumo aveva inondato la casa e i bambini incominciavano a girarle intorno impazienti.
Recuperava nella grande madia larghi vassoi, ci distribuiva sottili fette di pane raffermo, una spolverata di pecorino e poi ci versava quel brodo vegetale profumato di sedano e cipolla.
Ne lasciava nella grande padella quel tanto che bastava per rompervi e cuocervi un uovo per ogni commensale. Poi copriva la padella con un coperchio e lasciava sobbollire dolcemente le uova.
Passato qualche minuto, servendosi di un mestolo, adagiava le uova sul pane ormai inzuppato e faceva ancora riposare e insaporire il tutto fino al momento di andare a tavola.
Questo piatto veniva preparato spesso perché è molto gustoso, molto semplice e soprattutto poco costoso. Se ne faceva in grande quantità perché anche, se per caso fosse avanzato, al mattino successivo per la colazione c’era sicuramente qualcuno che lo avrebbe mangiato volentieri.
L’acquacotta ha cresciuto generazioni di persone. Forse non era così amata come lo è oggi in quanto si mangiava troppo spesso. Sicuramente ha consentito, a donne come la mia nonna, di sfamare i figli o perlomeno di fargli credere di essersi sfamati.
Quando preparo l’acquacotta non posso fare a meno di fantasticare. E mi domando se la mia nonna abbia mai pensato che la sua unica nipote avrebbe cucinato questo piatto immaginandola nella sua grande cucina. I muri alti, ingialliti dal fumo e dal tempo, le travi scure, l’acquaio di travertino, i secchi per terra, le strisce di carta moschicida che pendevano dal soffitto. E lei con quei lunghi vestiti neri con piccoli fiori, unico vezzo di una donna non più giovane, il fazzoletto annodato dietro al capo e quegli immacolati grembiuli bianchi che solo le donne di un tempo sapevano indossare come abiti da sera. Forse no, anzi sicuramente non se lo immaginava. Comunque sia dedico a lei questa mia passione per la cucina che credo essere, in qualche modo, frutto e regalo della sua eredità genetica.

mercoledì 10 febbraio 2010

Riso pilaf e pollo al curry

dosi per due/tre persone

Ingredienti:
gr. 300 di petto di pollo o petto di tacchino in un solo pezzo
1 mela croccante
1 piccola cipolla o scalogno
Sale
Curry
Vino bianco
Farina
Olio
Dado
Panna o latte

Per il riso
gr. 300 di riso per insalate di riso quello parboiled
lt. 0.500 di brodo fatto con un dado
una piccola cipolla o scalogno
olio
alloro
burro


Taglia il pollo (anche il tacchino va bene) a dadi. Lava la mela e dividila in quattro, togli il torsolo e senza sbucciarla dividila in grossi pezzi. Taglia finemente la cipolla.
In una casseruola metti un velo di olio e la cipolla tritata, fai rosolare qualche minuto senza far imbiondire. Aggiungi la carne passata nella farina, mescola, fai rosolare e poi unisci la mela e amalgama bene il tutto. Unisci il sale e un pochino di dado.
Fai rosolare facendo attenzione che la carne non attacchi al fondo della pentola. Quando la carne è rosolata aggiungi un mezzo bicchiere di vino bianco e fai evaporare. A questo punto unisci il curry ( 1 o 2 o 3 cucchiaini , questo dipende da quanto il curry è forte e da quanto a te piace più o meno saporito. Ti consiglio di metterne un paio di cucchiaini e poi lo assaggi e decidi cosa fare).
Mescola bene la carne affinché il curry si amalgami bene, fai insaporire un pochino e poi aggiungi dell’acqua calda , tipo un paio di tazze, incorperchia e lascia cuocere per una ventina di minuti. Passato questo tempo se c’è ancora molto liquido fai sobbollire ancora un pochino. Ricorda che il sugo deve risultare piuttosto liquido. A questo punto togli la carne dal tegame e frulla tutto quello che c’è nella pentola.
Rimetti nella pentola sugo e carne, controlla che il sapore sia di tuo gusto, aggiungi 3 o 4 cucchiai di panna fresca o latte e fai insaporire per qualche minuto. A questo punto la carne è pronta.

Prepara il brodo. Misura l’acqua, mettila in un pentolino e aggiungi un dado e porta a bollore. Accendi il forno a 200°.
Metti in una pentola, che può andare in forno (deve avere anche il coperchio), un filo di olio e la cipolla tritata finemente e fai rosolare, aggiungi il riso e fai tostare con l’olio a questo punto aggiungi un un’unica soluzione il brodo bollente e la foglia di alloro. Mescola il tutto e fai in modo che il riso sia completamente coperto dal brodo, spegni il fuoco e incoperchia.
Infila la pentola nel forno, che deve essere caldo a 200°, e lasciacelo per 20/25’ massimo.
Quando è passato il tempo indicato, togli dal forno e scoperchia. Il riso deve aver assorbito tutto il brodo, sgranalo con una forchetta e insaporiscilo con un pezzettino di burro.

E’ tutto.
Può sembrare difficile ma in realtà è molto facile e considera che ci vuole per tutte e due le cose circa un’ora, un’ora e un quarto.

mercoledì 27 gennaio 2010

Le donne della mia vita



Le donne della mia vita.

Mia madre aveva due sorelle. Lei era la più piccola. Erano tre perché c’era la voglia di un figlio maschio. Quando nacque mia madre, mio nonno decise che tre figlie femmine erano sufficienti e che era meglio non rischiare più. Virma, Elia e Ilva. Questi erano i loro nomi. Una diversa dall’altra. Tutte e tre molto belle.
Virma, la più grande è sempre stata un po’ gracile. Sempre con qualche problema di salute. Ricordo che quando andavamo a trovarla spesso era a letto con una benda sugli occhi, la tapparella abbassata, la finestra e la porta chiuse. Luce e rumori, in quei momenti, erano i suoi peggiori nemici. Aveva una dote unica. La fantasia. Quando era bambina giurava e spergiurava di parlare con le fate. Si rannicchiava contro un angolo della stanza e incominciava a parlottare sommessamente. E continuava a bisbigliare finché le due sorelle non la tiravano per la gonna, incuriosite, perché anche loro volevano sapere che cosa le dicevano le fate. Lei raccontava storie fantastiche di castelli, draghi e principi e per dare forza ai suoi racconti mostrava i pizzi che le fate le regalavano. Passava parte delle sue notti a lavorare all’uncinetto al lume della luna. E’ morta un paio di anni fa, dopo alcuni anni di assoluto silenzio. Non parlava e non vedeva più. Mi piace pensare che la sua mente e i suoi occhi siano stati rapiti dalle fate dei suoi giorni giovani.

Elia aveva una bellezza ribelle. Occhi azzurri e lineamenti lievi. Amava ballare. Ballava sempre. Quando apparecchiava e quando faceva i lavori di casa. Era allegra, rumorosa e molto testarda. Il suo primo grande amore partì per la guerra e non tornò mai più.
Era una cuoca stupenda sicuramente perché le piaceva cucinare e anche perché l’uomo che sposò amava la buona tavola. Passava ore ed ore in cucina, assaggiava, mescolava, aggiungeva e toglieva con la sicurezza di un alchimista e alla fine le sue pietanze oltre ai profumi e al gusto avevano dentro il suo cuore, il suo amore. Da quello che ricordo di allora e con la conoscenza di oggi posso dire che era davvero bravissima ma aveva sempre il timore di aver sbagliato qualcosa: troppo pepe? Troppo cotto? Poco sale? Non riesco a capire perché fosse sempre così titubante e insicura. Non ne aveva ragione ma, come tutti quelli un po’ speciali, lei non lo sapeva.
E’ stata l’unica a fare tre figli e sicuramente quella a cui la vita ha riservato più dolore e sofferenza. Perse il suo unico figlio maschio in un pomeriggio d’estate. Era luglio, faceva molto caldo. La notizia arrivò per telefono. Il suo urlo di dolore squarciò la noia di quel pomeriggio sospeso tra l’afa e l’ombra riportando tutti alla realtà. Una realtà fredda e terribile distesa sul tavolo dell’obitorio di Pietrasanta. La perdita di quell’unico figlio segnò profondamente il cuore e lo spirito di quella donna che incominciò un lento percorso verso il suo appuntamento con l’aldilà. Il suo carattere cambiò lentamente e gli occhi vivaci diventarono, ogni giorno, un po’ più spenti. Era come se tutto il resto degli accadimenti quotidiani della vita le scivolassero vicino ma mai attraverso il suo io. Una mattina d’inverno di alcuni anni dopo se ne andò, per sempre, anche suo marito, lo zio Bruno. Un uomo mite e laborioso che l’aveva sostenuta con amore e tenacia anche e soprattutto dopo la morte del loro figlio.
Lei ci ha lasciati prima che riuscissi a dimostrarle quanto ero diventata capace e quanto i suoi segreti e i suoi suggerimenti avessero migliorato la mia arte in cucina.

Ilva, mia madre, aveva una bellezza mediterranea. Forme morbide. Capelli ricci e neri. Occhi scuri e penetranti. Gli occhi di mia madre mi hanno parlato molto di più di quanto non lo abbia fatto lei.
Ricordo che da piccola soffrivo di gelosia. Quando la vedevo in atteggiamenti teneri con altri bambini mi assaliva una rabbia sorda che mi faceva mancare il fiato, mi dava le vertigini e mi feriva profondamente il cuore. Oggi se non sono gelosa è proprio grazie al fatto che quel sentimento mi faceva stare troppo male.
Lei era molto forte, molto rigorosa, molto concreta e molto pessimista. Aveva un grande cuore ed era incredibilmente generosa.
Ha forgiato la mia vita e il mio carattere ma non ha potuto nulla contro il mio ottimismo e la mia voglia di vivere. L’ho amata e odiata in egual misura e sono felice che la vita mi abbia dato un figlio maschio.
Quando penso a lei sento di non essere mai riuscita a parlarle serenamente, ad aprirle il mio cuore, a raggiungere quella confidenza complice che dovrebbe esserci tra madre e figlia. Era come se tra di noi ci fosse sempre un vento ghiaccio che raffreddava la capacità di parlare, di entrare in confidenza, di sentirsi intimamente liberi e sicuri di non essere giudicati. Verso di lei ho provato grandi rabbie e grande, grandissima tenerezza. La rabbia più sorda esplose un pomeriggio, in cucina, mentre insieme preparavamo la cena. Lei mi punzecchiava e mi sfidava per farmi capire che quel fidanzato che volevo sposare non era la persona giusta per me. Io la ascoltavo, rispondevo a monosillabi e cercavo di non sentire quelle parole che volevano scuotermi da quello stato di catalessi in cui vivevo. Capivo che quello che mi diceva era tutto corretto, tutto vero. Ma l’orgoglio, l’orgoglio non consentiva di accettarlo. Mi voltai e le diedi uno schiaffo. Lei si zittì sorpresa da tanta rabbia. Io, raggelata dalla mia reazione, fui incapace di piangere e di chiederle scusa. Ancora oggi faccio un sogno. Per difendermi devo schiaffeggiare qualcuno ma non ci riesco.
La tenerezza struggente e dolorosa, invece, l’ho provata soprattutto negli ultimi giorni della sua vita quando la fine, ormai vicina, le ha tolto anche la parola lasciandole solo la forza prepotente dello sguardo: due bellissimi occhi scuri e profondi.
C’è una vecchia foto che, quando mi capita tra le mani, la guardo e la riguardo e, a fatica, la ripongo. In quella foto ci siamo io e lei. E’una fotografia in bianco e nero. Siamo sulla soglia della casa di Semproniano. Il portone ci incornicia, all’interno tutto è nero. In quella foto non ha nemmeno trent’anni, sorride ed è bellissima. Anch’io sorrido. Indossa una bel vestito probabilmente blu. Ai piedi ha un paio di scarpe alte intrecciate. Io ho un vestitino chiaro ed un fiocco in testa. Ci teniamo per mano. Siamo felici tutte e due. La vita ci sorride. E’ così che mi piace ricordare mia madre, come in quella foto. Allegra, felice, giovane, solo mia, tutta mia, per sempre.